IL DIALOGO TRA LE RELIGIONI E IL PERICOLO DEL RELATIVISMO

 

 

 

TESTIMONI DI CRISTO, SEMPRE

Nella professione di fede, un cristiano deve dire sempre la verità: quella verità che da Dio è stata rivelata e che lui ha fermamente creduto. E vero che l’atto di fede è personale e libero: ma l’adesione interna (della coscienza personale) alla Rivelazione comporta anche la professione esterna della fede: tutta e sempre. Perché la fede è atto dell’uomo raggiunto dalla grazia nella sua specifica natura di essere intelligente e libero: di qui la necessità di comprendere con la ragione il contenuto della rivelazione divina e i segni della sua credibilità, per poter aderire consapevolmente e volontariamente a Cristo che ci rivela il vero volto di Dio (1). Ma la razionalità e la libertà della natura umana sono anche costitutive della essenziale socialità dell’uomo, e per questo la fede non può non avere una dimensione sociale. In effetti, la fede cristiana nasce dall’incontro di ciascuno con Cristo nella Chiesa e tramite la Chiesa (cfr. Rom 10,14-18) e quindi è sempre ricevuta da altri uomini, singoli e comunità (2). Inoltre, essa s’esplica totalmente nella comunità degli uomini, sia all’interno della Chiesa che al di fuori di essa, come "testimonianza" (l’esempio della vita) e come "evangelizzazione" (la parola che si fa eco dell’annuncio). Paolo insegna che la salvezza non deriva dall’accettazione meramente intima e segreta della fede, ma anche dalla sua aperta professione, per il bene comune: "Se con la tua bocca proclamerai che Gesù è il Signore, mentre nel tuo cuore sei certo che Dio lo ha risuscitato dai morti, allora sarai salvato" (Rom, 10, 9). Nella prassi, il cristiano - sia nella condizione di membro della sacra gerarchia che nella condizione di semplice fedele - si trova sempre a dover testimoniare la sua fede con le opere e con la parola: egli è sempre chiamato a prendere parte in qualche modo al compito missionario della Chiesa.

Tutto questo però non è da intendersi come una "prassi" in qualche modo diversa - tantomeno opposta - dall’essenza della vita cristiana, che è la carità.

 

LA CARITÀ DELLA VERITÀ

La carità - ossia l’amore filiale verso Dio e l’amore fraterno verso il prossimo - è tutta la vita cristiana, in ogni sua manifestazione. E il senso dì ogni azione, il fine di ogni iniziativa. L’amore per il prossimo, che è partecipazione dell’amore che Dio ha per ciascuno di noi, ha come manifestazione pratica essenziale. primaria, la comunicazione dei beni soprannaturali, ossia proprio la fede. Chi ama il prossimo con l’amore di Dio vuole prima di tutto e sopra di tutto ciò che Dio stesso vuole per ciascuno di noi: la salvezza, che consiste nell’incorporazione a Cristo con la fede e i sacramenti della Chiesa. "Dio [...] vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità (I Tim 2, 3). Certo, per annunciare il Vangelo in modo credibile occorre che la parola sia preceduta e seguita dalle forme visibili umane della carità, ossia da quelle "opere di carità" che la Chiesa ha sempre praticato, a imitazione del Maestro, e che ha dato origine all’istituzione dei diaconi: solidarietà, assistenza, giustizia, servizio disinteressato, misericordia. Ma già dall’istituzione dei diaconi gli Atti degli Apostoli testimoniano che la coscienza della Chiesa non perdeva di vista che il dovere primario - proprio per la pratica della carità cristiana - non era il "servizio quotidiano per l’assistenza delle vedove" o il "servire alle mense" (cfr At 6,1-2) ma era ed è sempre quello di ottenere per tutti gli uomini (destinatari dell’evangelizzazione) i beni soprannaturali della salvezza, dedicandosi innanzitutto alla preghiera e poi all’annuncio evangelico al servizio della Parola [he diakonìa tu logu] (At 6,2-4). Non è senza significato che la gerarchia dei sacri ministeri (i diaconi subordinati ai presbiteri e ai vescovi) rispecchi la gerarchia dei valori e dei fini nella pratica della carità. Oggi come ieri occorrono sia persone piene di Spirito Santo per le opere di carità, sia ancora di più e prima, occorrono persone - che si dedichino sempre alla preghiera e all’annuncio della salvezza in Cristo Gesù. Carisma apostolico che è istituzionale per i membri della sacra gerarchia, ma anima anche l’azione dei laici tutti, ciascuno nel proprio ambiente familiare e di lavoro, sicché nessuno può sentirsi esentato dall’apostolato ad fidem né credersi abilitato solo a opere esteriori di carità, intesa restrittivamente come servizio ai bisogni temporale del prossimo (3).

 

DIALOGO "POLITICO" E DIALOGO APOSTOLICO

Applichiamo questo elementare principio teologico al problema attuale del dialogo interreligioso. Per un minimo di chiarezza, però, occorre fare subito un’importante distinzione preliminare: la distinzione tra 1) "dialogo" inteso in senso proprio - e allora, dal punto di vista che qui ci interessa, quello del cristiano, si tratta né più né meno che dell’annuncio del Vangelo - e 2) "dialogo" nel senso di trattativa diplomatica tra comunità religiose (o tra singoli membri di esse, ne siano o no rappresentanti qualificati) allo scopo di evitare il perpetuarsi di antichi conflitti e di stabilire condizioni di pace, di reciproco rispetto, di convivenza, di tolleranza (4) - e allora non si tratta più direttamente dell’annuncio del Vangelo ma di qualcosa di esterno o di previo, che eventualmente può essere attuato in vista dell’evangelizzazione, ma che può invece essere attuato anche con altri scopi diversi o addirittura opposti a quelli dell’evangelizzazione.

 

IL PERICOLO DEL RELATIVISMO DOGMATICO

E qui se non si sa distinguere bene, si cela il pericolo reale (pericolo, cioè. che continui a succedere anche oggi quello che purtroppo è già successo tante volte ieri) di una caduta nel relativismo dogmatico e da qui nell’indifferentismo religioso. Infatti, proprio perché il dialogo, nella seconda accezione, può essere condotto con altri fini che non sono quelli primari e assoluti dell’apostolato ad fidem, la Chiesa ha sempre messo in guardia i fedeli dalle false concezioni della prassi cristiana e della carità che deve ispirarla sempre. Ecco quanto scriveva il papa Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio (§ 10): "[Il dono della salvezza] non è riservato soltanto a coloro che in modo esplicito credono in Dio e sono entrati nella Chiesa. Se è destinata a tutti, la salvezza deve essere messa in concreto a disposizione di tutti"; ma egli stesso precisava in una recente catechesi nel corso dell’udienza generale del mercoledì: "Quanto sopra ho detto non giustifica la posizione relativistica di chi ritiene che in qualsiasi religione si possa trovare una via di salvezza, anche indipendentemente dalla fede in Cristo redentore, e che su questa ambigua concezione debba basarsi il dialogo interreligioso. Non è qui la soluzione conforme al Vangelo del problema della salvezza di chi non professa il Credo cristiano. Dobbiamo invece sostenere che la strada della salvezza passa sempre per Cristo, e che quindi spetta alla Chiesa e ai suoi missionari il compito di farlo conoscere ed amare in ogni tempo, in ogni luogo e in ogni cultura: al di fuori di Cristo non "vi è salvezza". Come proclamava Pietro davanti al sinedrio, fin dall’inizio della predicazione apostolica: "Non vi è altro nome dato agli uomini sotto il ciclo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati" [At 4, 12] (cfr. L’Osservatore romano, 1° giugno 2003). E il cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede commenta: "Il relativismo è divenuto il problema centrale per la fede nella nostra epoca" (5).

 

CARITÀ COME MEZZO E COME FINE

Ecco dunque la chiave razionale per l’unica adeguata interpretazione della prassi pastorale della Chiesa impegnata a vari livelli nel dialogo interreligioso. La carità che si esplica nel l’abbattere barriere e discriminazioni sociali, nell’evitare incomprensioni ed inimicizie, nel creare e mantenere un clima di comprensione e di pacifica convivenza tra comunità e singoli membri sempre doverosa e meritoria ma non è mai fine a sé stessa, perché l’ultimo e unico fine del cristiano che si trova a dialogare con gli altri è quello della carità piena, ispirata dalla fede: colui che "fa la verità nella carità" (cfr. Ef 4,15) non si accontenta per il prossimo di un bene temporale e relativo - la pace religiosa - ma mira al bene supremo ed eterno della salvezza, da ottenersi tramite ciò che ne costituisce l’unica via, ossia la conoscenza del Salvatore, il quale deve essere annunciato sempre a tutti, in modo credibile, "in ogni occasione opportuna e non opportuna" (2 Tm 4,2). Paolo è l’esempio biblico più esplicito di come la carità che cerca la pace e la convivenza non sia disgiunta dalla carità che cerca la comunicazione della verità salvifica, ma anzi sia perfettamente ordinata a essa: "Mi sono fatto tutto a tutti per guadagnare a Cristo tutti. Tutto quello che faccio lo faccio per il Vangelo, in modo da poter io stesso giovarmene" (cfr. 1 Cor 9, 19-23). Ecco espresso in modo inequivocabile, anche linguisticamente, che l’avvicinamento all’altro e la condivisione di tutte le sue istanze vitali ha una finalità ("per"), che è appunto la missione apostolica il cui esito finale desiderato è la conversione dell’altro.

 

ANNUNCIO E CONVERSIONE

Questo stesso criterio ispira le parole di Paolo all’autorità politica, il procuratore romano Porzio Festo e il re ebreo Agrippa; quest’ultimo gli dice ironicamente: "Tra poco mi avrai convinto a diventare cristiano!" al che Paolo risponde con tutta serietà: "Volesse Iddio che tra poco o tra molto, non solo tu ma anche tutti quanti hanno ascoltato oggi le mie parole diventaste proprio come sono io, certo senza queste mie catene!" (At 26, 28-29). Chi non accetta questo modo di procedere, e ciò nonostante si professa cristiano, sovrappone evidentemente all’autorità della Scrittura e del Magistero l’autorità di qualche ideologo dei nostri tempi. Ho già detto che l’ideologia dominante è di tipo relativistico e che questo atteggiamento teoretico finisce per livellare - al livello bassissimo delle opinioni che si devono "tollerare" a vicenda - tutte le religioni, cristianesimo compreso. La missione evangelizzatrice della Chiesa, con lo scopo e il desiderio della conversione dei non cristiani, non è più considerata come un mandato divino che si ha il dovere e il merito di eseguire, non più come la manifestazione suprema e perfetta della carità, ma addirittura come un peccato contro la carità, in quanto manifestazione di superbia e di intolleranza: "La tolleranza e il rispetto per l’altro sembra che impongano l’idea dell’equivalenza di tutte le religioni; di conseguenza si dovrà rispettare la decisione del singolo che ha deciso di cambiare religione, ma non si potrà chiamare "conversione", perché questo in verità porrebbe la fede cristiana su di un piano più elevato e in tal modo contraddirebbe l’idea di uguaglianza. [...] Se vige l’uguaglianza di principio delle religioni, allora la missione non può che essere una specie di imperialismo religioso, al quale si deve resistere" (6).

 

RISPETTO PER L’ERRANTE MA ANCHE DESIDERIO DI SALVARLO DALL’ERRORE

In pratica. che cosa comporta questo chiarimento concettuale? Comporta che non si confonda il rispetto per la sacralità della coscienza altrui con l’approvazione degli errori insiti nelle credenze di coloro che tuttora si rifiutano di riconoscere Cristo come unico salvatore. Errori, ho detto, perché è così. Non sì può pensare in altro modo. Non si deve dare ascolto a quanti parlano spregiativamente di "certezze dogmatiche". Se Kant poteva avere qualche ragione (non tutte) per parlare di "dogmatismo" a proposito della filosofia razionalistica nella quale era cresciuto fino a quando non aveva letto Hume, non ha alcuna ragione chi parla di "dogmatismo" a proposito di chi professa la fede cristiana: essa, la fede, se non ha certezza non è tale; e la certezza della fede dei credenti in Cristo deriva dall’autorità della Chiesa docente, che propone i dogmi "da credere fermamente". Il termine dogma, in greco, indica "precisione", "certezza". Un buon cristiano crede davvero poche cose, e certezze della fede, quelle che costituiscono appunto il dogma cattolico, e le crede fermamente; invece, per quanto riguarda i problemi della filosofia, della scienza e della politica, un buon cristiano è saggiamente scettico, evita ogni fanatismo ideologico, assume con prudenza e con beneficio di inventario le teorie che gli vengono proposte dalle varie autorità umane, (7) e non si lascia irretire nemmeno dalle tendenze "fondamentalistiche" che vorrebbero tradurre direttamente in teoria scientifica o politica le verità religiose, attribuendo alla divina rivelazione le loro personali opinioni, basate su ragioni meramente umane (8). Che rovina per la fede quando i dogmi della verità rivelata vengono trattati come opinioni, e le opinioni umane vengono trattate come dogmi! Non a caso, è proprio il fanatismo ideologico, spesso esplicitamente politico, ciò che maggiormente ha inquinato l’atmosfera intellettuale del dialogo interreligioso, trasformandolo da occasione per rispondere al dovere missionario, in un’occasione per accantonare la missione e professare più o meno apertamente l’agnosticismo riguardo a Dio, il relativismo riguardo ai dogmi, l’indifferentismo riguardo alle religioni, attaccando di conseguenza quei pochi che ancora dicono di credere in Cristo, rivelatore del Padre e unico Salvatore di tutti, e spinti dalla carità lo annunciano con la doverosa "parresia" (9).

 

IL CORAGGIO DI DIRE LA VERITÀ CHE SALVA

Ci vuole coraggio, infatti. per annunciare Cristo agli uomini del nostro Tempo, e questo per vari motivi. Il primo motivo è che, in una società pluralistica e secolarizzata, la professione di fede cristiana appare come una posizione di minoranza, e per di più di una minoranza "tradizionalista’, attardata su posizioni "superate". Paradossalmente, l’antipatia delle ideologie dominanti nei confronti del cristianesimo come religione "dogmatica" va di pari passo con la simpatia delle medesime ideologie nei confronti dell’ebraismo e dell’Islam, che sono sistemi dottrinali talvolta molto più dogmatici e anche fondamentalisti (tra l’altro, la laicità dello Stato, che le ideologie dominanti hanno trasformato in una bandiera per la loro polemica contro la Chiesa cattolica, è un’eredità dottrinale e pratica del cristianesimo, mentre l’ebraismo classico (quello che precede la diaspora) e l’Islam "ortodosso" non hanno mai conosciuta ne riconosciuta).

Il secondo motivo per cui l’annuncio del Vangelo richiede coraggio è che questa società attuale, culturalmente globalizzata su base occidentale (ma prevalenza nordamericana), professa fanaticamente certi presunti valori politici, e al tempo stesso è relativistica, scettica e chiusa rispetto a valori propriamente religiosi. L’America che oggi domina il mondo culturale non è più l’America di William James, che in The Will to Believe scriveva che la religione (cristiana) è vera perché utile al mantenimento dello spirito democratico e dell’etica pubblica nella nazione. L’America di oggi crede piuttosto che le credenze religiose, con le loro preoccupazioni etiche, siano un intoppo o un freno al progresso scientifico, e che inoltre rappresentino di per sé il massimo pericolo per la pace, perché implicano il desiderio di impone i propri dogmi e generano dunque conflitti. Parlare di fede con fede - ossia, esporre la "fides quae creditur" con convinzione, mostrando di avere la "fides qua creditur" - significa esporsi al dileggio, doversi sottopone alla fatica apparentemente inutile di spiegare cose che nessuno vuole assolutamente capire. Che fatica essere "sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (cfr. I Pt 3, 15) soprattutto a chi questa ragione non può comprenderla, e prima ancora non ce la chiede nemmeno, perché ha già squalificato come illusoria la nostra speranza nella vita eterna!

In terzo luogo, non ci dimentichiamo che la persecuzione anticristiana non è mai cessata: in alcuni luoghi è vistosamente e drammaticamente in atto, in altri è un fenomeno sotterraneo, ma vale oggi come sempre l’avvertenza della Sacra Scrittura: "Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati" (2 Tm 3,12). Tutti coloro che sono impegnati nell’apostolato - che è sempre, in un modo o nell’altro, apostolato ad fidem - ne hanno esperienza. Io stesso sto subendo attacchi furiosi da parte di organi di stampa che non tollerano che qualcuno esponga con pacatezza e spirito costruttivo questo necessario criterio missionario che ogni cristiano deve adottare nel contesto del dialogo tra le religioni (10).

Se poi talvolta l’audacia sembra non essere necessaria, meglio; sarà invece necessaria comunque un’altra virtù apostolica, la pazienza, unitamente al distacco totale dal risultato, dal successo visibile, da ogni pretesa o attesa di gratificazioni. Gesù ha detto ai suoi discepoli: "Come hanno perseguitato me [e quanto!], così perseguiteranno anche voi; come hanno accolto la mia parola [ben poco!], così accoglieranno anche la vostra" (Gv 15, 20). E ancora è Paolo l’esempio inequivocabile per tutti coloro che vogliono essere apostoli: ricordiamo il dialogo con i filosofi pagani nell’Areopago di Atene; la sua disponibilità ad andare incontro alle esigenze intellettuali degli ateniesi è totale, la dialettica con cui presenta la base per un possibile accordo iniziale (ossia, il senso comune) è perfetta (11), ma la risposta è deludente (solo poche conversioni, con la maggior parte degli interlocutori che rimangono fermi alle critiche). Ma sono appunto le conversioni obiettivo della sua opera di evangelizzatore, e dopo aver seminato ad Atene senza raccogliere quasi nulla, Paolo non si demoralizza ma ritorna a Corinto dove ha molto seminato e molto ha anche raccolto (cfr. At 17, 16-34).

Mons. Antonio Livi
Cappellano di Sua Santità
Socio ordinario dell'Accademia di San Tommaso
Professore ordinario di Filosofia della conoscenza
Decano della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense

 

Note:

1) Vedi Antonio Livi, Razionalità della fede (Un’analisi filosofica alla luce della logica aletica), Leonardo da Vinci, Roma 2003.

2) Cfr. Josef Ratzinger, Fede, verità, tolleranza (Il cristianesimo e le religioni del mondo), trad. it. di Giulio Colombi, Ed. Cantagalli, Siena 2003, p. 73: "Chi entra nella chiesa deve avere coscienza di entrare in un vero e proprio soggetto culturale, con una propria interculturalità storicamente sviluppatasi e stratificatasi. Senza una sorta di esodo, senza una svolta radicale della vita a tutti i livelli non si può diventare cristiani. La fede in effetti non è una vita privata verso Dio; essa porta dentro il popolo di Dio e la sua storia".

3) Vedi Antonio Livi, Specificità laicale dell’apostolato, in AA. VV., Chi sono i laici, Ares, Milano 1987, pp. 63-80.

4) Questo è il tema principale del recente libro del card. Josef Ratzinger, Fede, verità, tolleranza, cit.

5) Josef Ratzinger, op.cit., p. 121. .

6) Josef Ratzinger, op.cit., pp. 109-110.

7) Cfr. Antonio Livi, La ricerca della verità (Dal senso comune alla dialettica), Leonardo da Vinci, Roma 2003.

8) Vedi Antonio Levi, "I cattolici e il bene comune", in Nuntium, 7/19 (2003), pp. 79-87.

9) Cfr Giovanni Paolo II, enciclica Fides et ratio, 48/2.

10) Mi riferisco alle critiche del quotidiano il Manifesto e dell’agenzia di stampa Adista per aver pubblicato una mia Introduzione al libro di Enrico Maria Radaelli, Il mistero della Sinagoga bendata (Effedieffe, Milano 2002), del quale ho parlato anche in questa rivista qualche mese fa.

11) Vedi in proposito l’analisi filosofica che ho tracciato in Antonio Livi, Filosofia del senso comune (Logica della scienza e della fede), Ares, Milano 1990.

 

 

 

 

 

Da Per maggiori informazioni cliccare sul logo n.14 - ottobre 2003 (per maggiori informazioni cliccare sul logo).
Pubblicato da "Profezie per il Terzo Millennio" su autorizzazione del direttore di redazione di "Fede e Cultura", don Guglielmo Fichera.

 


 

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